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Il mare rende lanima ai prigionieri

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La figura di Maria Pia Moschini non ha bisogno di grosse presentazioni parlando per lei un’attività poetica e artistica pluridecennale, ricchissima di spunti e tratte diverse basate fortemente sull’incontro e il dialogo multidisciplinare tra le arti concretizzate poi in quel luogo di ricerca che è “Intravisioni”, dal 1983 prezioso spazio fiorentino successivamente ampliato in casa editrice. Dialogo tra le arti dicevamo, che in qualche modo ritroviamo in questo libricino del 2011 in cui sono raccolti tra gli altri anche testi da “Le radici dell’esistere”, opera dei primi anni ottanta caratterizzata dall’apporto di Eugenio Miccini, uno dei fondatori della poesia visiva. Operazione di memoria e di omaggio alla polifonia della scrittura poetica la cui impronta è accompagnata e conclusa anche dalle poesie restanti che raccolgono, come la stessa Moschini avverte, esperienze poetiche alternative tra loro e riferibili nel tempo a periodi successivi della sua produzione. Così fin dalla prima sezione, “L’intuizione” del dire (dal nome del primo testo che per assiomi con gli altri ne scandisce le tappe) è legata ad una visione della scrittura in cui il fare poetico è strettamente connesso a quella natura in sé propria di veglia e custodia, di salvaguardia della terra dalla quale è possibile essere ripagati solo per il tramite di una pazienza e di una cura ostinatamente perseguite ed apprese. “E per “Solitudine” anche, “inventariando” se stessi ed il mondo nelle reciproche Apocalissi nella consapevolezza di una maturazione che paga anche qui solo entro quella direzione che è sempre lo scorrere del fiume a scegliere, nella compiutezza di una vita che è tale proprio nel grado di assecondamento alla foce. Mutazione” dunque, nei cui risucchi, dalle cui viscere sono richiamate galassie che la poesia restituisce come baluardo di Madre a fronte di un tempo d’uomini “senza sembianze”, segnati e vinti dai cortocircuiti dei propri irrimediabili scontri. Perché l’accompagnamento vero infatti è nel pieno del “Naufragio” (e ci viene alla mente allora il detto gandhiano secondo il quale non dobbiamo sfuggire alla tempesta ma imparare a ballarci dentro), desolazione del contemporaneo, “accaduto per incuria” , aguzzando come lei dice “quel poco di silenzio” e “farne un puntello, un vertice di leva” contro la ritrazione del Mare che tradisce- anche se ci lascia nel sospetto che il vero tradimento è il nostro proprio per le false rappresentazioni che ci siamo fatti del mare. E dalle cui rotte, nelle cui rotte, il ricominciamento non è altro che in uno spiegarsi continuo- necessariamente fiducioso verso nuovi lidi, verso una sempre nuova “Costellazione”. Così nell’ “Illuminazione” che segue è nella gratuità del dono la chiave di scardinamento di quel sistema vano di sicurezze in cui crediamo di porci al riparo dalle oscurità presenti in noi stessi e puntualmente poi ritornanti “ad ogni nostra buia voglia di male”. Offerta con un che di evangelico che (come lo stesso Pasolini amava ricordare) può essere appresa in particolar modo dai puri e dai semplici nella coscienza dell’ affidamento, ancora, e del dubbio, puntello, movimento che è “Incisione” per profezia di ogni vera poesia nella nitida nudità a perdere, “nel filo (..) riposto/ nella noce che canta”, nell’opposto di un percorso in cui si cela ogni identità possibile. Meta così che ben spiega la cruda, bellissima verità che è nel titolo stesso del libro, di un mare che rende l’anima ai prigionieri liberandoli prima di tutto dai detriti delle proprie rimozioni. E che una lingua essenzialmente ricca, vicina in alcuni momenti a motivi ed immagini cari alla poesia araba (l’Adonis del “Libro delle metamorfosi” per esempio), ben scioglie e vivifica in una tematica di superamento continuamente indagata anche nelle sezioni successive. In “Corrispondenza del giorno”, in cui in un discorso tutto legato alle piccole fessure di rivelazione tra le cronache del quotidiano, e in composizioni secche e di poche strofe, di nuovo viene la conferma che “vivere è riempire,/ abitare dentro il sottopassaggio/ di un’idea”. E nella conclusiva “Sul rovescio dell’ombra”, dove la poesia nella sua propulsione è crinale della rottura del guscio, l’uovo nel suo concetto di vita embrionale, di simbologia di rinascita ed offerta. Giacché è una poesia quella della Moschini che sa d’ogni respiro l’angolatura giusta di vento e di memoria “che è legno/lavorato dal mare/ fino/ allo spasimo”, la verità che è da abbracciare nel canto a fronte dell’immobilità e dell’auto-assolvimento dal mondo, del continuo sotteso aleggiare della morte (il Bambino Nero dell’omonima ultima poesia). Affermazione di vita piena allora con la quale vi lasciamo: “Dai retta a me/canta/ un modulo scattante/ una beguine/ per queste luci soffici/ di pergolato:/ c’è chi balla / si abbraccia alla camicia chiara/. Dai canta,/ che sappiamo noi le parole,/ a te il respiro/ o il fischio aspro/ del merlo”.

 

 

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